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La pratica del calcio, come quella di ogni altro sport, ha origini antiche.
Gli studi finora effettuati hanno permesso di percorrerne le tracce nell'antichità e di
ricostruire la sua lenta evoluzione durante il Medioevo, con particolare
attenzione al Rinascimento italiano, fino alla genesi del moderno football.
Già nelle epoche antiche gli storici hanno trovato tracce consistenti di
giochi con la palla, che “furono praticati sotto tutte le latitudini e in tutti i tempi”
(A. Ghirelli, 1990, pag. 3). Infatti, Ghirelli nota come “l’antichità ci abbia lasciato
una enorme e insospettabile documentazione sui giochi di palla che si
praticavano, più o meno simili al nostro calcio, prima e dopo l’avvento di Cristo”
(A. Ghirelli, 1990, pag. 3).
Tra le primitive genti celtiche e per le popolazioni Maya ed artiche la palla
era venerata come un oggetto carico di significati magici e rituali; gli indiani
d’America avevano una grande varietà di giochi con la palla, ed esistono prove
storiche che essi venissero praticati anche in Cina e Giappone.
Il calcio moderno deve comunque le sue origini più antiche “ai giochi
greco-romani della palla e a quelli indigeni della Britannia” (AA.VV., 1990, pag.
17).
In Grecia e nel mondo latino la palla era un oggetto privilegiato di gioco,
tanto che “i maggiori documenti politici della civiltà greca nel periodo eroico,
Iliade e Odissea, conservano accenni alle sferomachie coltivate dalle genti
greche” (A. Ghirelli, 1990, pag. 3). Già Omero, nell’Odissea, allude al gioco
della palla come ad una occasione di svago che coinvolgeva uomini e donne,
ed il canto VI dell’Odissea contiene ciò che Ghirelli considera essere la prima
cronaca calcistica della quale si abbia memoria.1
Gli elleni praticarono con crescente fervore qualsiasi tipo di gioco con la
palla: dall’episciro, alla feninda, all’appexaris. Tra le sferomachie greche,
combattimenti in cui due squadre con lo stesso numero di giocatori si
contendevano accanitamente una palla, il gioco che ebbe maggiore successo
fu l’episciro, che venne trapiantato nell’antica Roma come arpastum, con regole
pressoché identiche.
L’arpasto, come l’episciro, consisteva nello “strapparsi la palla attraverso
una folla di contendenti” (A. Ghirelli, 1990, pag. 5), e ciò conferma le
caratteristiche violente dei giochi che venivano praticati nell’antichità.
L’harpastum veniva spesso affiancato dall’aggettivo pulverulentum proprio
perché le squadre, azzuffandosi, sollevavano un gran polverone, specie quando
esse venivano praticate in luoghi aperti come il Campo Marzio.
L’arpasto veniva
praticato anche nelle pubbliche terme e nei lussuosi sferisteri delle ville private,
ma esso si affermò soprattutto tra i legionari dell’impero romano, che lo
esportarono fino in Inghilterra. “I britanni impararono il gioco dalle truppe di
occupazione e vi ci si appassionarono tanto da continuare a praticarlo, mentre
nella patria dei legionari l’arpasto andò malinconicamente declinando” (A.
Ghirelli, 1990, pag. 5).
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NOTE
1) In particolare, ci si riferisce al Canto VI dell’Odissea, che riporta i seguenti versi: “La palla lanciò la
regina a un’ancella, fallì l’ancella, scagliò la palla nel gorgo profondo. Quelle un lungo grido gettarono:
e si svegliò Odisseo luminoso”. Secondo Ghirelli, “questo canto contiene la prima cronaca sportiva di cui
si abbia memoria, là dove scrive Nausicaa dalle bianche braccia che sbaglia una specie di goal a porta
vuota, mancando il passaggio all’ancella e mandando la palla a rotolare in un profondo vortice, e
sveglia con un grido l’avventuroso re d’Itaca”. In particolare, cfr. Ghirelli, A., 1990, pag. 4.
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