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La psicologia dello sport è una vasta corrente di pensiero dove confluiscono diverse dottrine (psicologia, educazione fisica, sociologia, riabilitazione, ecc.) ed ha assunto, soprattutto negli ultimi anni, un ruolo fondamentale nella preparazione di ogni atleta.
Fino a pochi anni fa, e forse per alcuni è ancora così, lo sportivo era una vera e propria macchina programmata per allenarsi, perfezionarsi e vincere; pian piano si è cominciata a far strada l'idea, banale in apparenza, che l'atleta fosse prima di tutto un essere umano, con i suoi pensieri, le sue idee, il suo atteggiamento e soprattutto il suo universo emozionale e relazionale. Da questa considerazione nasce la centralità della figura dello psicologo sportivo; diventa, infatti, importante iniziare ad assumere una nuova prospettiva: non più il solo dato tecnico da insegnare e perfezionare, ma si prospetta anche la necessità di assegnare il giusto valore al dato umano.
Da questa prospettiva nasce l'importanza di riconsiderare il concetto di gruppo nello sport, non più solo come un semplice insieme di individui che volgono verso un obiettivo comune, ma in senso specificatamente umano, andando ad esaminare parallelamente allo scopo comune anche tutto quell'insieme di meccanismi che si instaurano nel momento in cui delle persone "stanno insieme". Ed ecco che il gruppo non viene più ad essere inteso, come in passato, come un'entità statica, bensì come "un processo dinamico dotato di un suo specifico significato". Parsons, in particolare, specifica le caratteristiche che vanno a distinguere questo nuovo concetto di gruppo dalla semplice aggregazione: la partecipazione dei suoi membri alle decisioni, la minima differenziazione dei ruoli, il sistema comunicativo faccia a faccia e lo spazio circoscritto, dato dal numero dei partecipanti che si percepiscono reciprocamente come facenti parte di un gruppo.
Alla luce di questo passaggio dall'atleta-macchina all'atleta-uomo si è andato specificando un significato di "gruppo sportivo", molto più complessivo e, a mio parere, precisamente inquadrato dalla definizione di Minguzzi: "un insieme dinamico costituito da individui che si percepiscono vicendevolmente come più o meno interdipendenti per qualche aspetto".
Che cosa si intende, però, nello specifico per interazione dinamica? Antonelli ci dice: "la dinamica di gruppo consiste nell'insieme fluido e mutevole delle interazioni e dei rapporti interpersonali tra i membri di un gruppo e tra questo e la realtà sociale esterna". Due sono i concetti chiave da chiarire, in questa definizione, per cogliere precisamente il ribaltamento teoretico operato dal mondo psicologico nell'intendere la relazione gruppale: Interdipendenza e Rapporto interpersonale.
Il primo identifica un processo attraverso il quale due o più persone si influenzano a vicenda, diventando l'una per l'altra causa ed effetto delle rispettive azioni. Queste ultime rispondono alle prescrizioni di ruolo e aspettative reciproche. Un esempio può far riferimento allo scherma: i due schermitori regolano le loro mosse sul comportamento l'uno dell'altro.
Con il secondo concetto, Rapporto personale, invece, ci si sposta fuori dal campo del sistema normativo e valoriale per entrare in una dimensione specificatamente umana, fatta di simpatie, affetti, emozioni. Psicologicamente è legato al concetto di:
a) attrazione, ossia la similarità tra i membri per idee, atteggiamenti e tratti significativi;
b) rifiuto, quindi l'indifferenza, la divergenza ideologica ed emotiva;
c) conflitto, dato imprescindibile della vita e, quindi, della vita sportiva per svariati motivi: rivalità, addebito di responsabilità, meccanismi transferali e proiettivi, concorrenza di potere, e altro.
Ecco, dunque, ben delineata la distanza tra le due concezioni passata e attuale del mondo sportivo: alla staticità precedente, fatta di regole volte a generare campioni, si contrappone la considerazione che affianca alla valutazione dello sportivo come atleta da formare e perfezionare, la constatazione dell'uomo, con i suoi punti di forza, le sue fragilità e le sue dinamiche interiori.
L'operatore sportivo, dunque, negli ultimi anni è chiamato a "capire", potremmo dire a "sentire", chiaramente che pur restando il raggiungimento di un obiettivo il cardine attorno al quale si sviluppa l'intero gruppo, esistono molteplici esigenze, vissuti, personalità, meccanismi di interazione e rapporti che vanno inevitabilmente ad influire sulla prestazione e che non possono in nessun modo essere ignorati o sottovalutati perché vanno a costellare l'ambito delle potenzialità prestazionali di ogni gruppo sportivo.
Non è possibile, quindi, evitare di sottolineare il ruolo fondamentale che ricopre l'allenatore, in quanto, non più solo, referente massimo delle abilità tecniche, ma anche, e soprattutto, supporto psicologico, guida in senso sia agonistico che umano per i suoi sportivi. Il "mister" riassume in sé una molteplicità di ruoli molto difficili da sorreggere, insegna il dato tecnico ma è fondamentalmente l'individuo a cui gli atleti fanno riferimento per ogni tipo di necessità.
La leadership, quindi, intesa come processo d'influenza interpersonale orientata al raggiungimento di particolari obiettivi, diventa un meccanismo fondamentale che può portare l'allenatore ad ottenere una squadra vincente, non solo nel senso di un risultato prestazionale, ma nell'ottica più umana di soddisfazione, equilibrio, benessere dei suoi membri, o può completamente destabilizzarne l'assetto.
Esistono molteplici tipologie di conduzione:
- Leadership carismatica, dove si rimette ogni decisione al leader, che stabilisce obiettivi, mezzi, motiva i suoi atleti, il tutto adottando uno stile di comando quasi paternalistico ed abolendo ogni tentativo di partecipazione in senso decisionale da parte dei membri;
- Leadership burocratica o orientata al compito, dove l'azione del leader viene ad essere quella di controllo e coordinazione, la conduzione risulta regolata da un preciso sistema gerarchico, formale, dove i singoli atleti sono chiamati esclusivamente al rendimento;
- Leadership partecipativa o orientata alle relazioni umane, dove ampio spazio è lasciato al contributo individuale di ogni partecipante, l'intero processo decisionale, quindi, viene ad essere nelle mani di tutta la squadra e il leader assume una funzione consultiva.
Numerose sono le ipotesi, nella psicologia, per identificare uno stile di "comando" ottimale. A me sembra più appropriato stabilire alcuni punti, desunti essenzialmente dal buon senso, che possono fare di un allenatore un buon leader:
1 - tener conto che situazioni differenti richiedono leadership diverse;
2 - è fondamentale per il leader essere accettato dal gruppo e capirne bisogni e necessità;
3 - un buon leader rinuncia al suo status per far sì che il suo team non sia centrato su di lui, ma su se stesso;
4 - una buona leadership dovrebbe saper dosare tra due poli di comando: orientato al compito, in vista degli scopi da raggiungere e orientato alle relazioni interpersonali, per tutta la parte socio-emotiva, in virtù di quanto accennato sui meccanismi che sorgono quando un insieme di esseri umani si riunisce in un gruppo.
Sicuramente la "virata" teorica introdotta dalla psicologia dello sport non è semplice da gestire, soprattutto per gli allenatori, perché tanti sono gli aspetti da tenere sempre sotto controllo quando si parla di esseri umani, ma innegabile è la forza di questo nuovo approccio che è veramente capace di "generare" campioni, proprio perché va a guardare ed aiutare l'uomo, e va a considerare attraverso la fallibilità che caratterizza noi tutti i punti su cui poter concretamente lavorare per rendere un atleta magari "medaglia d'oro" alle Olimpiadi.
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