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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
FATTO E DIRITTO
1. Il Pretore di Messina procedeva
a carico di A. B. per il reato ex art. 590 c.p. per avere per colpa,
per imprudenza e negligenza, quale allievo della palestra di karate
"A.I.K.K." cagionato a F. B. una lesione personale guarita oltre il
cinquantesimo giorno.
Il Pretore, a seguito dell'istruttoria dibattimentale
svolta, assolveva l'imputato "perché il fatto non costituisce reato".
2. Il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Messina proponeva
impugnazione avverso detta decisione.
La Corte di merito confermava
la sentenza del Pretore, rilevando che il primo giudicante correttamente
aveva applicato, nell'ambito di esercizio dell'attività sportiva, la
causa di giustificazione del "consenso dell'avente diritto" ex art.
50 c.p.. Aggiungeva che risultava, nel caso di specie, che l'incontro
di allenamento tra l'allievo - cintura nera - B. ed il F., allievo cintura
bianca, si era svolto secondo le norme regolamentari dello sport praticato.
In particolare, era stata la parte offesa a volere effettuare un incontro
più impegnativo con una persona di maggiore esperienza.
Ancora, il colpo
inferto dall'imputato al F. era costituito da un "calcio circolare"
uno dei primi colpi che in genere veniva insegnato agli allievi e che
di regola era facilmente controllabile.
3. Il Procuratore Generale presso
la Corte di Appello di Messina avanzava ricorso per Cassazione, facendo
valere due motivi di doglianza.
A) La motivazione della Corte di merito
si palesava erronea, in quanto questa non aveva tenuto conto che le
regole della disciplina sportiva del karate ed il loro rispetto potevano
avere rilevanza nell'ambito di svolgimento di gare effettive e non nel
caso di allenamenti compiuti, come nel caso di specie, tra atleti tra
i quali intercorreva un notevole divario tecnico. In tale ipotesi, sarebbe
stata opportuna un'attenta prudenza da parte dell'allievo più esperto
nei riguardi dell'avversario principiante e sostanzialmente la simulazione
dei colpi diretti all'altro contendente.
B) La Corte di merito non aveva
disposto la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale ai sensi dell'art.
603 comma 2 e 3 per l'assunzione di una prova decisiva (l'acquisizione
ed utilizzazione di una perizia prodotta dal P.G. e a questo consegnata
dalla parte offesa) concernente la sussistenza di postumi invalidanti
permanenti a danno del F.
Invero, la dimostrazione di tale circostanza
non avrebbe consentito, secondo l'orientamento della Corte di Cassazione,
l'operatività della scriminante del consenso dell'avente diritto.
In
conclusione, il ricorrente chiedeva l'annullamento della sentenza impugnata
con rinvio.
4. Il primo motivo di ricorso si palesa fondato e va accolto.
Giova osservare che la problematica della liceità o meno del comportamento
del soggetto nello svolgimento di attività sportiva è stata oggetto
di ampia trattazione in dottrina e con minore frequenza in sede giurisdizionale.
Principio comunemente seguito è quello di qualificare l'esercizio di
attività sportiva come una causa di giustificazione e cioè di esclusione
dell'antigiuridicità in relazione a fatti che di per sé configurerebbero
ipotesi di reato.
Nel tempo, è stato fatto riferimento, pur nell'ambito
degli articoli da 50 a 54 c.p., ad ipotesi diverse. Più frequentemente
è stata privilegiata la fattispecie dell'art. 50 c.p. (consenso dell'avente
diritto), delimitando l'esimente ai casi di c.d. "rischio consentito"
e cioè strettamente connesso e consequenziale alla pratica sportiva
nel rispetto delle regole di ciascuna. La difficoltà di applicazione
di tale esimente consiste nelle prescrizioni contenute nella norma secondo
cui il consenso deve riguardare diritti disponibili (con riferimento
così all'art. 5 c.c., il quale fa divieto di compiere atti di disposizione
del proprio corpo quando cagionino una diminuzione permanente dell'integrità
fisica): in tal guisa, non sarebbero scriminanti gli atti produttivi
di postumi permanenti ed a maggior ragione la morte.
Di recente, è stato
applicato l'art. 51 disciplinante l'esercizio di un diritto, ma tale
qualificazione non consentirebbe l'inclusione nella causa di giustificazione
di pratiche sportive non organizzate ufficialmente. Appare a questo
Collegio maggiormente esaustiva la tesi tradizionale che configura l'esercizio
dell'attività sportiva come causa di giustificazione non codificata,
nel senso che il soddisfacimento dell'interesse generale della collettività
a svolgere attività sportiva per il potenziamento fisico di giovani
e meno giovani, e come tale tutelato dallo Stato, può consentire l'assunzione
del rischio della lesione di un interesse individuale relativo all'integrità
fisica (sotto tale profilo, non costituirebbe un limite neppure il disposto
ex art. 5 c.c.).
D'altro canto, la ricorrenza dell'esimente in esame
è stata opportunamente circoscritta e condizionata al rispetto, in principio,
delle norme disciplinanti ciascuna attività, richiedendosi altresì all'atleta
di adeguare la propria condotta anche a norme generali di prudenza e
diligenza, dovendo la pratica sportiva essere controllata in ogni momento,
e per quanto può essere consentito dalle specifiche finalità agonistiche,
dal senso vigile ed umanitario del rispetto dell'integrità fisica e
della vita sia dell'avversario che di terzi (v. Cass. Sez. II 9.10.1950
- Fabbro).
Anche in epoca recente, la giurisprudenza (v. Cass. Sez.
V 30.4.1992 - Lolli; Tribunale Civile di Aosta 21.5.1997 AA/Perucca)
ha sottolineato che la scriminante non è più configurabile quando si
travalichi il dovere di lealtà sportiva e si ponga seriamente a repentaglio
l'incolumità fisica del partecipante, esponendolo ad un rischio superiore
a quello consentito in quella determinata pratica sportiva ed accettato
dal partecipante medio. In altre parole, il fatto lesivo non può mai
essere conseguenza di colpi inferti per dolo o per colpa, nei casi in
cui l'esercizio dello sport divenga solo l'occasione per ledere volontariamente
l'avversario ovvero per l'esplicazione di una violenza eccessiva, ulteriore
a quella c.d. "di base" necessaria per lo svolgimento dello sport.
5. Premessi i principi giuridici da applicarsi nella vicenda in esame,
va rilevata, in punto di fatto, che B.F., a seguito di un incontro di
karate in allenamento con A. B. effettuato senza utilizzare mezzi di
protezione (evenienza questa emersa pacificamente nel caso che ci occupa),
veniva attinto violentemente al viso da un calcio sferrato dall'avversario.
In conseguenza del colpo, F. riportava trauma facciale con fratture
multiple, che lo costringevano a sottoporsi ad intervento di chirurgia
di maxillo-facciale; secondo le valutazioni contenute nella perizia
medico-legale (proveniente dalla parte offesa) prodotta nel giudizio
di appello dal Procuratore Generale, documentazione non utilizzata dalla
Corte di merito, sarebbero residuati postumi invalidanti pari al 13-14%.
Al riguardo, va detto, e sul punto la sentenza appare censurabile per
l'erronea interpretazione della normativa penale e per l'inadeguata
motivazione della fattispecie, che l'attività sportiva nel caso di esibizione-allenamento
richiede nel comportamento dei contendenti una maggiore prudenza e cautela
per evitare non necessari pregiudizi fisici all'avversario, e quindi
un maggior controllo dell'ardore agonistico e della forza e velocità
dei colpi: a maggior ragione, ciò appare necessario nell'ipotesi di
combattenti di diversa esperienza e capacità e privi dei consueti mezzi
di protezione che si utilizzano nelle competenze agonistiche. Solo nella
ricorrenza di dette condizioni di comportamento può invocare la causa
di giustificazione idonea ad escludere l'antigiuridicità della condotta
di per sé penalmente illecita (v. in tal senso, Tribunale Civile di
Roma 4.4.1996 Cesullo/Valtur).
Nelle sentenze di merito di che trattasi,
la impostazione giuridica non risulta conforme a tali canoni e gli elementi
sopra evidenziati sono sottovalutati, non adeguatamente approfonditi
ed apprezzati nel senso prospettato. D'altronde, non vi è alcuna prova
che la parte offesa ebbe espressamente, come necessario, consentito
l'eventualità di lesioni eccedenti i limiti della c.d. "violenza di
base" dello sport praticato.
6. Il secondo motivo di ricorso si palesa
superato in considerazione dell'impostazione giuridica sopra esposta,
per la quale, è comunque irrilevante, ai fini del riconoscimento della
causa di giustificazione, la causazione ad opera dell'imputato di eventuali
postumi invalidanti alla vittima.
7. In conclusione, la sentenza impugnata
va annullata con rinvio alla Corte di Appello di Messina altra sezione,
per un nuovo giudizio. La Corte di merito, nella nuova delibazione dovrà
uniformarsi al seguente principio di diritto. "Nel caso di attività
sportiva esplicantesi in esibizione-allenamento, i contendenti debbono
usare particolare prudenza e diligenza per non travalicare i limiti
connessi a siffatte modalità di pratica sportiva, caratterizzata da
una minore carica agonistica, da un maggiore controllo delle manifestazioni
di violenza agonistica e della velocità dei colpi, con specifico riferimento
alla capacità di esperienza dell'avversario ed ai mezzi di protezione
in concreto utilizzati.
Funzione tipica dell'allenamento-esibizione
è essenzialmente, nella disciplina del karate, il reciproco studio dei
colpi e della tecnica sportiva per un complessivo miglioramento e coordinamento
dei movimenti propri della disciplina stessa; per contro, la competizione
agonistica è caratterizzata dalla specifica finalità di dominare l'avversario
utilizzando ogni movimento e colpo regolamentare idonei a renderlo inerte".
Per questi motivi la Corte di Cassazione, IV Sezione Penale, annulla
la sentenza impugnata, e rinvia per un nuovo giudizio alla Corte di
Appello di Messina altra Sezione.
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