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Cassazione - Sezione Quarta Penale
Presidente P. Fattori
Relatore R. Galbiati
Sentenza: n. 2286/2000

Lesioni personali colpose
Attività sportiva (allenamento di Karate)

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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

FATTO E DIRITTO
1. Il Pretore di Messina procedeva a carico di A. B. per il reato ex art. 590 c.p. per avere per colpa, per imprudenza e negligenza, quale allievo della palestra di karate "A.I.K.K." cagionato a F. B. una lesione personale guarita oltre il cinquantesimo giorno.
Il Pretore, a seguito dell'istruttoria dibattimentale svolta, assolveva l'imputato "perché il fatto non costituisce reato".

2. Il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Messina proponeva impugnazione avverso detta decisione.
La Corte di merito confermava la sentenza del Pretore, rilevando che il primo giudicante correttamente aveva applicato, nell'ambito di esercizio dell'attività sportiva, la causa di giustificazione del "consenso dell'avente diritto" ex art. 50 c.p.. Aggiungeva che risultava, nel caso di specie, che l'incontro di allenamento tra l'allievo - cintura nera - B. ed il F., allievo cintura bianca, si era svolto secondo le norme regolamentari dello sport praticato. In particolare, era stata la parte offesa a volere effettuare un incontro più impegnativo con una persona di maggiore esperienza.
Ancora, il colpo inferto dall'imputato al F. era costituito da un "calcio circolare" uno dei primi colpi che in genere veniva insegnato agli allievi e che di regola era facilmente controllabile.

3. Il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Messina avanzava ricorso per Cassazione, facendo valere due motivi di doglianza.

A) La motivazione della Corte di merito si palesava erronea, in quanto questa non aveva tenuto conto che le regole della disciplina sportiva del karate ed il loro rispetto potevano avere rilevanza nell'ambito di svolgimento di gare effettive e non nel caso di allenamenti compiuti, come nel caso di specie, tra atleti tra i quali intercorreva un notevole divario tecnico. In tale ipotesi, sarebbe stata opportuna un'attenta prudenza da parte dell'allievo più esperto nei riguardi dell'avversario principiante e sostanzialmente la simulazione dei colpi diretti all'altro contendente.

B) La Corte di merito non aveva disposto la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale ai sensi dell'art. 603 comma 2 e 3 per l'assunzione di una prova decisiva (l'acquisizione ed utilizzazione di una perizia prodotta dal P.G. e a questo consegnata dalla parte offesa) concernente la sussistenza di postumi invalidanti permanenti a danno del F.
Invero, la dimostrazione di tale circostanza non avrebbe consentito, secondo l'orientamento della Corte di Cassazione, l'operatività della scriminante del consenso dell'avente diritto.
In conclusione, il ricorrente chiedeva l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio.

4. Il primo motivo di ricorso si palesa fondato e va accolto.
Giova osservare che la problematica della liceità o meno del comportamento del soggetto nello svolgimento di attività sportiva è stata oggetto di ampia trattazione in dottrina e con minore frequenza in sede giurisdizionale.
Principio comunemente seguito è quello di qualificare l'esercizio di attività sportiva come una causa di giustificazione e cioè di esclusione dell'antigiuridicità in relazione a fatti che di per sé configurerebbero ipotesi di reato.
Nel tempo, è stato fatto riferimento, pur nell'ambito degli articoli da 50 a 54 c.p., ad ipotesi diverse. Più frequentemente è stata privilegiata la fattispecie dell'art. 50 c.p. (consenso dell'avente diritto), delimitando l'esimente ai casi di c.d. "rischio consentito" e cioè strettamente connesso e consequenziale alla pratica sportiva nel rispetto delle regole di ciascuna. La difficoltà di applicazione di tale esimente consiste nelle prescrizioni contenute nella norma secondo cui il consenso deve riguardare diritti disponibili (con riferimento così all'art. 5 c.c., il quale fa divieto di compiere atti di disposizione del proprio corpo quando cagionino una diminuzione permanente dell'integrità fisica): in tal guisa, non sarebbero scriminanti gli atti produttivi di postumi permanenti ed a maggior ragione la morte.

Di recente, è stato applicato l'art. 51 disciplinante l'esercizio di un diritto, ma tale qualificazione non consentirebbe l'inclusione nella causa di giustificazione di pratiche sportive non organizzate ufficialmente. Appare a questo Collegio maggiormente esaustiva la tesi tradizionale che configura l'esercizio dell'attività sportiva come causa di giustificazione non codificata, nel senso che il soddisfacimento dell'interesse generale della collettività a svolgere attività sportiva per il potenziamento fisico di giovani e meno giovani, e come tale tutelato dallo Stato, può consentire l'assunzione del rischio della lesione di un interesse individuale relativo all'integrità fisica (sotto tale profilo, non costituirebbe un limite neppure il disposto ex art. 5 c.c.).
D'altro canto, la ricorrenza dell'esimente in esame è stata opportunamente circoscritta e condizionata al rispetto, in principio, delle norme disciplinanti ciascuna attività, richiedendosi altresì all'atleta di adeguare la propria condotta anche a norme generali di prudenza e diligenza, dovendo la pratica sportiva essere controllata in ogni momento, e per quanto può essere consentito dalle specifiche finalità agonistiche, dal senso vigile ed umanitario del rispetto dell'integrità fisica e della vita sia dell'avversario che di terzi (v. Cass. Sez. II 9.10.1950 - Fabbro).
Anche in epoca recente, la giurisprudenza (v. Cass. Sez. V 30.4.1992 - Lolli; Tribunale Civile di Aosta 21.5.1997 AA/Perucca) ha sottolineato che la scriminante non è più configurabile quando si travalichi il dovere di lealtà sportiva e si ponga seriamente a repentaglio l'incolumità fisica del partecipante, esponendolo ad un rischio superiore a quello consentito in quella determinata pratica sportiva ed accettato dal partecipante medio. In altre parole, il fatto lesivo non può mai essere conseguenza di colpi inferti per dolo o per colpa, nei casi in cui l'esercizio dello sport divenga solo l'occasione per ledere volontariamente l'avversario ovvero per l'esplicazione di una violenza eccessiva, ulteriore a quella c.d. "di base" necessaria per lo svolgimento dello sport.

5. Premessi i principi giuridici da applicarsi nella vicenda in esame, va rilevata, in punto di fatto, che B.F., a seguito di un incontro di karate in allenamento con A. B. effettuato senza utilizzare mezzi di protezione (evenienza questa emersa pacificamente nel caso che ci occupa), veniva attinto violentemente al viso da un calcio sferrato dall'avversario.
In conseguenza del colpo, F. riportava trauma facciale con fratture multiple, che lo costringevano a sottoporsi ad intervento di chirurgia di maxillo-facciale; secondo le valutazioni contenute nella perizia medico-legale (proveniente dalla parte offesa) prodotta nel giudizio di appello dal Procuratore Generale, documentazione non utilizzata dalla Corte di merito, sarebbero residuati postumi invalidanti pari al 13-14%.

Al riguardo, va detto, e sul punto la sentenza appare censurabile per l'erronea interpretazione della normativa penale e per l'inadeguata motivazione della fattispecie, che l'attività sportiva nel caso di esibizione-allenamento richiede nel comportamento dei contendenti una maggiore prudenza e cautela per evitare non necessari pregiudizi fisici all'avversario, e quindi un maggior controllo dell'ardore agonistico e della forza e velocità dei colpi: a maggior ragione, ciò appare necessario nell'ipotesi di combattenti di diversa esperienza e capacità e privi dei consueti mezzi di protezione che si utilizzano nelle competenze agonistiche. Solo nella ricorrenza di dette condizioni di comportamento può invocare la causa di giustificazione idonea ad escludere l'antigiuridicità della condotta di per sé penalmente illecita (v. in tal senso, Tribunale Civile di Roma 4.4.1996 Cesullo/Valtur).

Nelle sentenze di merito di che trattasi, la impostazione giuridica non risulta conforme a tali canoni e gli elementi sopra evidenziati sono sottovalutati, non adeguatamente approfonditi ed apprezzati nel senso prospettato. D'altronde, non vi è alcuna prova che la parte offesa ebbe espressamente, come necessario, consentito l'eventualità di lesioni eccedenti i limiti della c.d. "violenza di base" dello sport praticato.

6. Il secondo motivo di ricorso si palesa superato in considerazione dell'impostazione giuridica sopra esposta, per la quale, è comunque irrilevante, ai fini del riconoscimento della causa di giustificazione, la causazione ad opera dell'imputato di eventuali postumi invalidanti alla vittima.

7. In conclusione, la sentenza impugnata va annullata con rinvio alla Corte di Appello di Messina altra sezione, per un nuovo giudizio. La Corte di merito, nella nuova delibazione dovrà uniformarsi al seguente principio di diritto. "Nel caso di attività sportiva esplicantesi in esibizione-allenamento, i contendenti debbono usare particolare prudenza e diligenza per non travalicare i limiti connessi a siffatte modalità di pratica sportiva, caratterizzata da una minore carica agonistica, da un maggiore controllo delle manifestazioni di violenza agonistica e della velocità dei colpi, con specifico riferimento alla capacità di esperienza dell'avversario ed ai mezzi di protezione in concreto utilizzati.
Funzione tipica dell'allenamento-esibizione è essenzialmente, nella disciplina del karate, il reciproco studio dei colpi e della tecnica sportiva per un complessivo miglioramento e coordinamento dei movimenti propri della disciplina stessa; per contro, la competizione agonistica è caratterizzata dalla specifica finalità di dominare l'avversario utilizzando ogni movimento e colpo regolamentare idonei a renderlo inerte".

Per questi motivi la Corte di Cassazione, IV Sezione Penale, annulla la sentenza impugnata, e rinvia per un nuovo giudizio alla Corte di Appello di Messina altra Sezione.

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