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Quando la maglia è in vacanza. Il business dello stile estremo

di Claudio Cucciatti e Matteo Pinci


L’ultima maglia del Milan vista contro il Bologna non è un lavaggio con la candeggina finito male. Le saette nere sul modello della Juventus della prossima stagione non sono strisce disegnate al buio.

Dietro le scelte estreme dei club c’è sempre una precisa strategia di marketing, concepita per incuriosire i vecchi tifosi e attrarne di nuovi: le maglie sono le tele dei creativi. La forma è plasmata sul prototipo attillato per tutte le squadre. Colori e disegni invece non hanno limiti.

Lo sponsor “dentro” la maglia
Sono passati cinquant’anni esatti da quando i tedeschi dell’Eintracht Braunshweig misero sul petto, primi a farlo, l’amaro Jägermeister. L’ultima big a cedere è stata il Barcellona con Qatar Foundation (prima, al massimo, ospitava il logo Unicef). Ora la Juventus – se la maglia della prossima stagione spifferata dal web fosse confermata – potrebbe divenire un caso di product advertising: le strisce nere a zig-zag sono il segno lasciato su una strada sterrata da una Jeep.

Lo sponsor “entra” nella grafica: era capitato di vedere Marchegiani al Chievo con le ragnatele addosso nell’imminenza dell’uscita del film Spiderman 2. Era il 2004.

Le regole
Eppure, ci sarebbero limiti precisi alla creatività. I club di Serie A possono avere quattro divise: oltre, serve un’autorizzazione ulteriore dalla Lega. Non è complicato, il Napoli è arrivato a 12: le tre base, quattro dedicate a Maradona, la flame, una per Halloween e altre tre diverse maglie in Europa.

Tre è anche il limite di colori: se sono di più, deve esserci una tonalità “chiaramente dominante”. Dal prossimo anno, per ragioni televisive, sarà vietato il verde: interferisce con i led pubblicitari. I numeri hanno un’altezza standard (25-35 centimetri sulla maglia, 10-15 sul pantaloncino), un unico font deciso dalla Lega e non possono essere fluo, oro o argento, così come i nomi dei calciatori.

Gli sponsor, non più di quattro (due sul petto), possono occupare fino a 650 centimetri quadrati (350 sul davanti, 200 sul retro, 100 sulla manica sinistra, mai sul colletto, mentre sulla manica destra va il patch della competizione).

Da molto tempo i club vendono con successo lo spazio sul fondoschiena. Il brand tecnico ha 20 centimetri quadrati per il nome e 20 per il logo.

Chi gioca in casa sceglie la maglia, chi è in trasferta si adegua. Tre giorni prima le società compilano un form on-line, selezionando una delle divise già approvate e registrate a inizio anno in Lega. Il modulo viene esaminato dall’Aia che valuta se i colori possono creare problemi all’arbitro.

Un mezzo di comunicazione
La pubblicità reclama più spazio e nuovi interventi. “Oggi la sponsorizzazione – spiega Fabio Poli, direttore organizzativo dell’Associazione Italiana Calciatori – è un messaggio comunicativo che c’entra poco o nulla con la maglia, divenuta un nuovo media. Alcuni club sanno fare uno storytelling incisivo e il risultato diventa ancora migliore”.

Ma quanto fanno guadagnare, alle venti squadre di Serie A, i brand sulle maglie? Secondo una recente indagine di StageUp, in questa stagione il giro d’affari è di 335 milioni di euro, il 35% in più di un anno fa: 230 dai partner commerciali, 105 dagli sponsor tecnici.

Le main sponsorship (quelle sul petto) valgono 173 milioni, di cui il 46% solo per Juve, Inter e Milan e il 54% per le altre. “La maglia è un investimento sul futuro – spiega Simonetta Pattuglia, coordinatrice del Master di Marketing e Management dello Sport dell’Università di Roma Tor Vergata – che i club stanno facendo in attesa degli stadi nuovi polifunzionali, quelli che accoglieranno le famiglie in un luogo dove si gioca, si va al cinema, si mangia, si guarda la partita. Fidelizzando un nuovo tifoso grazie a una bella maglia, si possono attirare anche i suoi amici e familiari”. Senza dimenticare l’incremento degli accessi alle app e agli store delle squadre. Una spesa che ne genera altre, un vero e proprio volano.

Il mercato
Il prezzo medio di una maglia di serie A è di 89,5 euro. Se parliamo di divise home, quella della Juve è la più cara (140 euro per la maglia ufficiale, 90 per la replica). In assoluto spicca quella celebrativa di Maradona del Napoli, a 150. La meno cara è quella del Genoa che non tocca i 60 euro.
Arrivati a questo punto della stagione, cominciano i saldi: è già tempo di presentare una nuova maglia. Di questi ricavi, ai club finisce una percentuale fra il 3% e il 4%. La favola di Ronaldo e Messi che “si ripagano” da soli, evidentemente, non regge.

I collezionisti
Ma questi sono solo prodotti comprati in negozio. Tutt’altra cosa è una maglia che ha avuto una vera storia in campo. Meglio se sudata, sporca d’erba: guai a lavarla. La match worn può avere la data e la partita cuciti in un dettaglio (in Champions, ad esempio). E può valere cifre inestimabili: su eBay ne viene venduta una dell’Argentina accreditata come una delle maglie vestite da Maradona al Mondiale 1986. Costo? Oltre 30 mila euro.

Dipendenti del club, magazzinieri o semplici collezionisti vendono le maglie usate dai calciatori durante la stagione. Ogni atleta ha a sua completa disposizione due kit per partita: spesso lo scambio con un avversario non avviene più alla fine, ma all’intervallo, e il secondo tempo si gioca con maglia nuova.

I contratti stabiliscono anche un numero massimo di divise che il giocatore potrà avere gratis (se vuole regalarle in giro, dopo un po’, gli verranno decurtate dallo stipendio). Molte non vengono mai utilizzate o spariscono a fine gara per riapparire nei circuiti on-line.

Incappare in un falso è più difficile rispetto al passato. “Ogni maglia da gara – prosegue Poli -, diversa nelle finiture da quelle che acquistano i tifosi, ha un codice univoco che la identifica. Questo favorisce anche le aste benefiche, dove i collezionisti si presentano in massa certi di potersi aggiudicare un prodotto vero”.

                                                               
Fonte: articolo pubblicato su "la Repubblica” del 6 aprile 2022
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