Riprendendo il discorso fatto nella precedente parte di questo lavoro, alcuni studi hanno preso in considerazione un modello multidimensionale e, applicando delle statistiche multivariate, non hanno riscontrato un impatto statisticamente significativo di alcune delle variabili psicologiche considerate maggiormente influenti (come la personalità degli atleti); ciò è stato spiegato avanzando l’ipotesi per cui le variabili di tipo psicologico abbiano un ruolo predittivo delle future performance in ogni caso più debole rispetto alle abilità tecniche e che tale influenza non emerga eseguendo analisi di tipo multivariato.
In modo differente da quanto detto, Forsman, Blomqvist, Davids, Liukkonen e Konttinen (2016) hanno messo in luce un effetto significativo delle componenti motivazionali sulle future performance di livello agonistico. Queste considerazioni sono importanti in quanto è emerso come, in base al tipo di analisi statistiche che si propongono, gli esiti possono subire delle variazioni di impatto e ciò può, non solo nell’ambito del presente lavoro ma in generale anche in altri contesti di ricerca, costituire un limite e un elemento di eterogeneità tale da compromettere la possibilità di giungere a delle considerazioni condivise. In generale, è emerso che le variabili più frequentemente indagate sono state quelle tecniche e di personalità rispetto a quelle percettive e cognitive che sembrano essere più complesse da valutare per motivi più di tipo pratico-organizzativo che non di contenuto.
Tra le variabili tecniche che maggiormente acquisiscono un valore predittivo vi è il dribbling e il controllo della palla che risultano essere determinanti indipendentemente dallo stadio di sviluppo. Riguardo gli studi in cui le componenti percettive e cognitive sono state valutate, è stata messa in luce una discrepanza tra tali abilità indagate con strumenti self-report e le stesse abilità messe in atto durante le azioni di gioco; inoltre, è stato evidenziato l’impatto del decision-making.
Sono stati inoltre messi in evidenza risultati discrepanti rispetto al ruolo delle caratteristiche psicologiche e delle abilità mentali in quanto alcuni studi hanno riscontrato un loro impatto significativo nel discriminare tra atleti di diversi livelli mentre altri non hanno confermato questo esito [Figueiredo, Gonçalves, Coelho, Silva, & Malina, (2009); Van Yperen (2009); Huijgen, Elferink-Gemser, Lemmink, & Visscher (2014); Zuber, Zibung, & Conzelmann (2015); Höner, & Feichtinger (2016)].
Riguardo la motivazione, è emerso che i due elementi maggiormente impattanti sono “la paura del fallimento”, che è risultato essere correlato significativamente e in modo negativo con il successo futuro, e “la speranza di avere successo”, che correla positivamente con il successo in ambito sportivo. Questo dato risulta in linea con dati evidenziati in precedenza in cui era stato sottolineata la relazione tra l’avere una disposizione di speranza per il successo futuro e la messa in atto di comportamenti e modalità di attribuzione più funzionali (e.g., l’essere maggiormente perseveranti anche di fronte agli errori e avere una modalità di attribuzione interna, a sostenere il senso di poter essere parte attiva nel processo di raggiungimento dei propri obiettivi) rispetto a coloro che invece avevano la tendenza a temere l’insuccesso.
Inoltre, un solo studio ha messo in luce la relazione tra l’essere orientati verso l’obiettivo e l’avere successo in futuro (Höner, & Feichtinger, 2016). Quello che sembra necessitare di ulteriori indagini è anche il ruolo delle abilità mentali che, insieme agli altri indicatori soprattutto di natura psicologica, dovrebbero essere valutati longitudinalmente e considerando più campioni di atleti estratti anche da diverse realtà calcistiche nazionali e internazionali.
Andando verso una conclusione, nonostante l’eterogeneità dei dati in letteratura che, inevitabilmente, sono influenzati anche da variabili di natura socio-culturale e metodologica, è evidente la necessità di compiere una valutazione delle caratteristiche psicologiche e personologiche degli atleti non dicotomica ma quanto più continua nel tempo anche per non far passare il messaggio che “se uno è bravo a 9 anni allora spaccherà e avrà sicuramente successo sempre a prescindere da ciò che accadrà nel corso della sua vita”* e promuovere quindi modalità educative volte sì al successo ma soprattutto al benessere, privilegiando un atteggiamento proattivo e non punitivo prestando attenzione al valore e all’importanza della persona non solo per una questione che definirei “morale” quanto anche per considerare l’impatto pervasivo che alcune variabili, fino a un certo momento silenti, potrebbero avere sul benessere individuale (tenendo conto anche della potenziale illusione, dei sacrifici e delle energie spese magari unicamente in un ambito della propria vita su cui tutta la concezione di sé è stata riversata) e sulla possibilità di continuare a “puntare” (magari dopo anni di investimenti) su un determinato atleta.
Oltre a ciò, e alla luce di quanto esposto, le società dovrebbero dunque saper compiere una valutazione più globale della persona per valutarne l’idoneità o meno in una determinata categoria come anche sono chiamate a saper riconoscere i campanelli di allarme e di disagio che un atleta può presentare, disponendo delle strategie di azione con il fine di arginare il disagio, il drop-out (che non deve essere confuso con la conseguenza di una scelta “serena” e consapevole da parte dell’atleta) e il mantenimento di un ambiente di squadra collaborativo e compatto in cui il divertimento deve rimanere tra i capi saldi in parallelo agli obiettivi e ai traguardi che comunque implicano una presa di responsabilità da parte di ogni singolo giocatore.