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Antidoping: pulire la mente

    Il rilevatore del benessere del sistema mente-corpo durante la pratica sportiva è innanzi tutto il divertimento, sensazione prodotta dalla secrezione encefalica di endorfine. Tuttavia non vi è presente il solo principio di piacere, giacché lo sport è competizione (connessa con l'idea dell'io e con il principio di realtà) e, negli sport di squadra, cooperazione (connessa con la razionalità).

Ma la pratica sportiva è anche e soprattutto allenamento assiduo, vale a dire autodisciplina (esercizio della volontà), sacrificio (scegliere lo sport rinunciando ad altre cose) e fatica (affine al lavoro). Ciò presuppone la presenza di una motivazione che soprattutto nell'età pubero-adolescenziale è direttamente connessa con l'autostima. Ed è proprio al rinforzo dell'autostima che si accompagnano in genere gli interventi degli adulti (genitori, allenatori, tecnici, medici sportivi, ecc.), i quali vengono ad assumere un ruolo spesso determinante per il tipo e la qualità della motivazione di cui sopra.

Lo sportivo adolescente (e non solo) sperimenta dunque piacere, ma anche intima soddisfazione man mano che trae profitto, (cioè progressione di risultati nella costanza degli allenamenti, e/o migliora nell'affiatamento con i compagni, imparando così a tollerare la frustrazione).
Nella psicologia esistenziale tale soddisfazione viene definita con il termine di appagamento, che con il piacere può ben convivere, ma da cui si differenzia in quanto tocca livelli decisamente più profondi dello psichismo (V.Frankl parla in proposito di "inconscio spirituale"). Per dirla in breve, è piacere sportivo l'emozione della vittoria in sé, costituiscono invece appagamento gli echi o feedbacks psicofisici e psicomotori sperimentati dall'aver dato il meglio di sé, indipendentemente dallo stesso risultato: una singola vittoria può, infatti, essere effimera come il piacere, mentre l'impegno disciplinato e costante produce salti di qualità nelle prestazioni e quindi un rendimento duraturo e soddisfacente nel tempo.

Va detto che nel gergo sportivo il concetto di "atleta appagato" sottende sostanzialmente un disvalore o quasi, indicando un soggetto non più motivato a vincere; mentre il concetto umanistico-esistenziale di appagamento sta ad indicare la presenza di senso e significato nella vita di una persona, cioè la presenza di un sistema di valori, significati e scopi congrui tra loro che garantisce il soggetto che non cada nella noia e nel vuoto esistenziale. Questo termine definisce una particolare sindrome di tipo ansioso depressivo che molti giovani tendono vanamente e pericolosamente di combattere con emozioni forti e trasgressive, tra le quali occorre annoverare il "bisogno della vittoria ad ogni costo".

Dicevamo del ruolo dell'adulto, determinante sotto l'aspetto educativo nell'indirizzare psicologicamente l'adolescente: questi infatti non ha ancora completato l'età involutiva e si trova ad essere particolarmente sensibile a tutto quanto sollecita i suoi tratti narcisistici (da superarsi col tempo, ma ora indispensabili per conquistare la sua autonomia), giacchè la sua autostima è governata da potenti processi di crescita fisiologico-estetica.
Pertanto messaggi del mondo adulto esageratamente stimolanti della competitività (fattore di per sé naturale e non implicitamente negativo) o della "necessità" dell'affermazione individuale o di gruppo possono facilmente alterare il sistema di valori dell'atleta adolescente con l'effetto di rinforzare patologicamente il suo Io narcisistico e di "costringerlo" così a pigiare sempre di più sull'acceleratore ansiogeno della prestazione massima sempre e comunque, con l'inevitabile effetto di far dipendere la sua soddisfazione psicologica unicamente dal risultato.

L'ansia del piacere liberatorio della vittoria sostituisce o inibisce i centri di valore apportatori di appagamento e dà via libera all'affioramento dei contenuti istintuali insiti nella parte più arcaica del cervello, ristimolando l'impulso primordiale della paura-aggressività (e quindi di sopraffazione) che dominava lo psichismo dei nostri progenitori preistorici.

Tali istinti si svilupparono come adattamento ad un ambiente spietato e completamente dominato dalle leggi di natura alle quali o si sopravviveva o si periva, mentre le leggi morali cavalleresche e sportive saranno invece frutto dello sviluppo della corteccia cerebrale che renderà possibile la civiltà, il raziocinio e la consapevolezza individuale e sociale. Il "ritorno primordiale" allo stato di natura (ovviamente inconscio) dell'atleta adolescente è perciò la base psicologica che lo può facilmente predisporre ad accettare "moralmente" sostanze dopanti.
Nell'atleta può allora instaurarsi facilmente una vera e propria dipendenza della propria autostima dalla vittoria o dal risultato massimo: il doping ne costituisce la logica conseguenza. Si sviluppa così la paura ossessiva dell'insuccesso, si disconosce progressivamente l'intrinseco valore dell'impegno e del sacrificio (sostituiti dall'ansia per il risultato e dall'instaurarsi della frustrazione come conseguenza della caduta della capacità di tollerare gli errori propri o dei compagni).

Il doping è dunque molte cose. Incapacità di tollerare e di elaborare utilmente la sconfitta o l'insuccesso, formazione di un io immaturo, aggressivo e ipertrofico concentrato solo su se stesso e/o sulla propria squadra (ad imitazione del club tribale di appartenenza, situazione che rafforza ancor di più la motivazione a fare uso di sostanze illecite e/o pericolose e fa abbassare la soglia di attenzione critica nei confronti dei farmaci), impoverimento dei valori e dei significati esistenziali e scomparsa dell'appagamento. Insomma, una sorta di lotta contro tutti gli altri e, in definitiva, contro se stessi.

La campagna per lo Sport Pulito, lanciata con determinazione dalla Regione Piemonte, non si arresta dunque al pur imprescindibile monito di salvaguardia della salute fisica dello sportivo, né tantomeno ai necessari richiami alle norme giuridiche e morali: vuole anche porsi come prevenzione sociale ed antidoto psicologico ad una cultura mediatica che, pur condannando la pratica del doping sportivo in generale, finisce per alimentare i presupposti di base allorquando mitizza i valori del successo e dell'affermazione fini a se stessi, nonché dell'emersione glorificata del campione dalla massa "anonima".
Non va infatti dimenticato che lo sportivo adolescente è estremamente influenzabile dal flusso di informazioni, spesso spettacolarizzate e perciò tanto più suggestive, che i mass media producono su "chi ce l'ha fatta", contribuendo involontariamente ad accentuare le sue spinte narcisistico-egoistiche.

Eppure il doping ha alternative che permettono "guadagni" infinitamente migliori, come testimonia un sempre maggior numero di atleti che definiscono la propria identità personale e sportiva su risultati costruiti nel tempo (ricavandone livelli di soddisfazione e di autostima che nessun successo dopato può eguagliare), come dimostrano l'aumento della longevità agonistica e gli stessi record ottenuti anche parecchi anni dopo l'inizio dell'attività.
Tali successi nascono evidentemente anche da precedenti insuccessi che hanno permesso di indicare a questi atleti i punti tecnici da rinforzare e migliorare, là dove invece l'atleta "prigioniero" del risultato ad ogni costo può facilmente indirizzare sospetti paranoidi di doping sull'avversario che lo ha superato. E tale stato psicologico può sicuramente indurre l'atleta sospettoso, se non adeguatamente corretto dai suoi tecnici, a doparsi davvero per avere "pari opportunità".


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