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Doping, stretta al commercio

di Michele Damiani e Maria L. Guardamagna

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Ampliato il reato di commercio di sostanze dopanti. La vendita fuori dai canali ufficiali sarà punita non solo quando la sostanza sarà utilizzata “al fine di alterare le prestazioni agonistiche dell’atleta”, come previsto oggi ai sensi dell’art. 586 bis, settimo comma, del codice penale.

A stabilirlo la Corte costituzionale, che con la sentenza 105/2022 depositata ieri ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 586 bis, 7 comma, specificatamente proprio per quanto riguarda la parte relativa al collegamento con l’alterazione delle prestazioni dello sportivo, in violazione dell’articolo 76 della Costituzione.

Il commercio di sostanze dopanti, quindi, sarà punito anche se l’utilizzatore finale non ne usufruisca per migliorare le proprie prestazioni agonistiche. Si torna a quanto previsto dalla legge 376/2000, o meglio, la Consulta ha censurato le modifiche alla legge operate con il dlgs 21/2018, attuativo della legge delega 103/2017.

In sostanza, la legge 376 puniva il commercio di sostanze dopanti a prescindere da come le stesse fossero poi utilizzate. Per quanto attiene il commercio, quindi, non era necessario l’inserimento di un dolo specifico, che avrebbe portato “a trasformare il primario bene giuridico tutelato da quello della salute a quello del fair play nelle manifestazioni sportive”, come si legge nella sentenza della Consulta.

L’inserimento del dolo specifico è avvenuto con la trasposizione nel codice penale delle modifiche operate dal dlgs 21/2018; fu infatti riproposta la dicitura “al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti” anche per quanto riguarda la vendita di doping, “con ciò determinando l’abolitio criminis del reato con riferimento a condotte di commercializzazione di sostanze dopanti non dirette ad atleti impegnati in prestazioni agonistiche”.

Secondo la Consulta, da parte del governo c’è stato un “uso scorretto del potere legislativo”, visto che “in asserito contrasto con la norma di delega”, l’esecutivo “ha trasposto nel codice penale la disposizione incriminatrice in esame restringendo la rilevanza penale della condotta da essa originariamente prevista (commercio di sostanze dopanti), mentre la fattispecie di reato sarebbe dovuta rimanere inalterata nella sua estensione”.

In definitiva, quindi, “la novella censurata altera significativamente la struttura della fattispecie di reato che, per effetto di tale innovazione, punisce la condotta di commercio delle sostanze dopanti solo se posta in essere al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti e quindi solo se sussiste, in questi termini, il dolo specifico”, secondo il giudizio degli ermellini.

“Anche il baricentro del bene giuridico protetto risulta deviato dalla salute, individuale e collettiva, delle persone alla correttezza delle competizioni agonistiche. In tal modo il governo ha operato una riduzione della fattispecie penale, perché, richiedendo il dolo specifico, ha ristretto l’area della punibilità della condotta di commercio di sostanze dopanti. Ciò si pone in contrasto con le indicazioni vincolanti della legge delega, che non attribuiva il potere di modificare le fattispecie incriminatrici già vigenti, e quindi viola l’art. 76 della Costituzione”.

La Corte è intervenuta sul tema nonostante in linea di principio siano “inammissibili le questioni di legittimità costituzionale che concernano disposizioni abrogative di una previgente incriminazione, e che mirino al ripristino nell’ordinamento della norma incriminatrice abrogata dal momento che a tale ripristino osta, di regola, il principio consacrato nell’art. 25, secondo comma, della Costituzione, che riserva al solo legislatore la definizione dell’area di ciò che è penalmente rilevante”, come si legge ancora nella sentenza.

Però “tali principi non sono senza eccezioni”. E tra tali eccezioni “senz’altro rientra l’uso scorretto del potere legislativo da parte del governo che abbia abrogato, anche parzialmente, mediante decreto legislativo una disposizione penale, senza a ciò essere autorizzato dalla legge delega”.

L’abrogazione della fattispecie criminosa mediante un decreto legislativo, adottato in carenza o in eccesso di delega, si porrebbe quindi, secondo la Corte, “in contrasto con l’art. 25, secondo comma, Cost., che demanda in via esclusiva al Parlamento, in quanto rappresentativo dell’intera collettività nazionale, la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili, precludendo al Governo scelte di politica criminale autonome o contrastanti con quelle del legislatore delegante”.

                                                               
Fonte: articolo pubblicato su Italia Oggi del 23 aprile 2022

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