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La situazione degli stadi in Italia:
analisi degli errori passati e
delle prospettive future (prima parte)


dott. Francesco Cuzzupoli*

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    L'Italia è, tra i Paesi più evoluti in termini calcistici, la Nazione che ha la capacità di assorbimento del mercato più bassa, ossia scarsità di servizi e stadi sovradimensionati rispetto al pubblico cui si rivolge.
L'epoca di costruzione del 33% degli impianti di A e B è compresa tra il 1920 e il 1937; un 27% è stato realizzato tra il 1950 e il 1970 e il restante 33% tra il 1972 e il 1990, anno dell'edizione italiana dei Mondiali di calcio.
Solo gli stadi di Padova e Reggio Emilia, le cui squadre militano in serie C, sono di recentissima costruzione.

Tale dato è significativo della situazione strutturale degli stadi nel nostro paese nonché della necessità di notevoli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria.
Il 50% degli impianti di serie A e B è dotato di piste di atletica leggera e, per quasi l'80% di essi, la pista viene utilizzata solo in rarissime occasioni e con scarsa presenza di pubblico, con l'evidente conseguenza che solo in pochi casi l'abbinamento pista di atletica/stadio rappresenta una giusta scelta progettuale e gestionale.

Il 50% degli edifici è ubicato in zone ad elevata densità abitativa delle città e solo il 30% è dotato di spazi sottotribuna utilizzati per uffici o strutture sportive.
La gestione dello stadio è, spesso, praticamente assente: lo stadio viene vissuto per appena 70 ore l'anno, e questo comporta per le società " […] maggiori costi (spese di gestione, canone di locazione, costi di complessità, ecc.) e minori ricavi (impossibilità di una profittevole gestione degli spazi interni ed esterni all'impianto), non coerenti con logiche economico aziendali od imprenditoriali"1.

Gli stadi da sempre rappresentano un costo non indifferente nella gestione finanziaria di un club, a causa dei canoni di locazione cui spesso si sommano sia le spese di manutenzione che i mancati guadagni derivanti dalla non-gestione diretta della pubblicità.
La capienza media degli impianti italiani è troppo elevata per soddisfare le esigenze di un club incline ad attuare una strategia tesa alla diversificazione dei ricavi.
In occasione dei Mondiali di calcio del 1990, molti dei più importanti stadi italiani sono stati profondamente ristrutturati ovvero costruiti ex-novo: il nostro Paese ha perso un'opportunità storica, non riuscendo a sfruttare un'occasione ideale per creare impianti con caratteristiche tali da far incrementare sensibilmente il livello dei ricavi delle società.
Altro grave problema la sicurezza: nel nostro Paese la quasi totalità delle strutture della massima serie non registra da anni lavori di restauro e adattamento alle nuove norme di sicurezza. Il "Renato Curi" di Perugia non subiva interventi da circa 20 anni (il presidente Gaucci, nel 2002, aveva minacciato il Comune di andare a giocare a Firenze se non ci fossero stati interventi di rinnovamento, portati a termine, comunque, all'inizio dell'attuale stagione).

La direttiva europea 57/92 in materia di sicurezza, aveva già evidenziato, più di dieci anni fa, il ruolo del soggetto organizzatore o meglio del titolare dell'attività, delegandolo quale responsabile della sicurezza. Tale indicazione dell'Unione Europea, pur recepita dalla legislazione nazionale, è stata disattesa nella realtà dagli stadi italiani, progettati e realizzati senza programmi di gestione e senza mai interpellare le società sportive.
I dati sono allarmanti: " […] il 19% degli stadi dalla A alla C risulta agibile salvo delega; il 38% agibile con prescrizione; solo il 43% è in regola. […]
Mancano recinti, divisori, un rifacimento dei sistemi di accesso a spalti e campo, un'area di pronto soccorso, senza dimenticare le vie di fuga non sempre rispettate per i disabili.Una situazione insostenibile, concausa dell'aumento degli episodi di violenza e di teppismo: in totale + 260% nella stagione 2001/2002, soprattutto nelle serie inferiori"2.

Tutte le proprietà degli impianti di serie A e B sono dei rispettivi Comuni (pratica che risale al periodo fascista e che il legislatore, fin dal 1977, ha individuato quale organo costituzionale principe a cui demandare la gestione dell'impiantistica sportiva sita sul territorio da esso amministrato), eccetto lo stadio Olimpico, di proprietà del CONI, e il "Giglio", di proprietà della A.C. Reggiana. Tale situazione è, tuttavia, un'anomalia che si riscontra solo in Italia, se si considera che in Premier League 20 club su 20 sono proprietari dello stadio in cui giocano e nella Liga spagnola 7 su 20.

La tipologia di gestione più diffusa è la gestione in concessione che si ha quando l'ente pubblico affida a terzi la gestione di uno o più servizi, attraverso la definizione di un contratto e riservandosi il potere di indirizzo e controllo sui risultati raggiunti.
La mancanza di investimenti in infrastrutture e servizi, di una visione di lungo periodo e di un management in grado di comprendere con acutezza tale situazione, hanno comportato una gestione fallimentare degli stadi di calcio italiani protrattasi per anni, divenendo, senza dubbio, una delle principali cause del vistoso calo di spettatori riscontrato in Italia nell'ultimo decennio anche se molti addossano ancora alla televisione il ruolo di killer della presenza di spettatori live.
Ancora più negativi i dati italiani se, invece delle presenze medie, si analizzano l'indice di riempimento dello stadio, dove l'Italia risulta all'ultimo posto.
Questi dati sono molto esemplificativi del problema degli stadi e della loro gestione in Italia: a fronte di impianti moderni e gestiti direttamente dalle società ad esclusivo interesse del tifoso/cliente, propri del modello inglese, i nostri club contrappongono strutture dagli altissimi costi di gestione, spesso vuote e non adatte ad essere gestite in maniera privata e manageriale.
I vincoli urbanistici di molti impianti ne impediscono l'impiego a tempo pieno; esistono poi delle difficoltà di intervento da parte delle società sportive a dare precise garanzie per ottenere finanziamenti agevolati da parte del Credito Sportivo, in quanto lo stadio non è un bene commerciabile, per l'univocità del rapporto di concessione. Le garanzie, in questo caso, potrebbero basarsi sul valore degli interventi progettati e prospettati, in quanto si tratterebbe di interventi produttivi. In tal senso il CONI potrebbe collaborare nella pianificazione e nella programmazione degli interventi, divenendo il link istituzionale in grado di far interagire in modo profittevole club, FIGC, amministrazioni comunali e le altre discipline sportive eventualmente presenti negli stadi.



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Sommario
* Neolaureato in Scienze della Comunicazione con tesi sul Marketing della gestione integrata degli stadi di calcio in Italia e in Europa. Ha contribuito alla stesura dei contenuti e all'organizzazione di Sport Up 2004 "Be the player" e di Sport Up 2003 " Chi comunica vince", convegni su new media e sport.

1) BAGHERO M., PERFUMO S. e RAVANO T., Per sport e per business. E' tutto parte del gioco., Franco Angeli, Milano, 1999, p. 47

2) MARANI M., Grandi stadi, è ora di aprire i cantieri privati, in IlSole24OreSport, n. 3 anno 4, p. 5
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