Il binomio sport e affari è sempre esistito. Senza un'adeguata organizzazione economica, nessuna disciplina può pretendere di espandersi, generare profitti e investire su se stessa per aumentare la qualità di ciò che produce. Lo abbiamo sempre saputo. La differenza, in questi ultimi anni, sta nell'aver accettato quel che prima in molti volevano ignorare. Forse per una questione culturale, probabilmente per una scarsa diffusione di cognizioni di economia.
Viviamo in un'epoca in cui qualsiasi prodotto, nel mare delle offerte, deve investire in qualità e si deve organizzare sul versante della promozione. Se posseggo qualcosa e voglio che sia diffuso e conosciuto devo poter disporre di una macchina estremamente costosa. Prima un imprenditore, un politico o un mecenate investiva a fondo perduto nelle più popolari discipline sportive, dai combattimenti tra gladiatori alle squadre di calcio. Il ritorno, non certo economico, si misurava in immagine e appeal nei confronti dell'opinione pubblica. Una questione di obiettivi.
Prendiamo il calcio, e le folli spese che hanno sempre rappresentato una parte necessaria di ogni campagna acquisti. Esisteva una correlazione tra il denaro utilizzato per costruire una grande squadra, non sempre con i risultati voluti, e le possibilità di cogliere i maggiori successi. Non importava quanto un presidente era disposto a investire. Più zeri aveva la somma e meglio era.
Ora le cose sono cambiate, perché scarseggia la risorsa di base, il denaro. E, quando un bene scarseggia, diventa sempre più importante. Allora se ne parla e si dice che il calcio è diventato un business. Non è vero, non lo è diventato. Lo è sempre stato, ma non interessava a chi i soldi li investiva e al pubblico, che non se ne curava.
Una scelta obbligata
Ora tutti sono preoccupati dei bilanci in rosso delle società di calcio. Sanno dell'impossibilità delle pay-tv di sostenere il livello di spesa finora raggiunto. E senza un buon budget non è possibile sperare di affrontare il campionato più difficile del mondo. Allora si impone un concetto: razionalizzazione. La Lazio, quotata in borsa con risultati finora mediocri, decide un tetto salariale, per destinare alla forza lavoro una percentuale minore rispetto al fatturato. Una scelta impensabile fino a qualche anno fa, ma obbligata per una società quotata. Prima la Roma e poi la Juventus l'hanno seguita, e adesso tutte e tre rappresentano un valore di capitalizzazione di 445,92 milioni di euro.
La Juventus sta per realizzare uno stadio tutto suo, in stile calcio inglese, da poter far fruttare come fonte alternativa di reddito, avendo un vero centro di intrattenimento. Le romane rincorrono lo stesso obittivo.
Strumenti finanziari come private equity, securitization, obbligazioni corporate e project financing sono sempre più frequenti nel mondo del pallone. Si cerca di organizzare su larga scala, arrivando all'estero, una rete distributiva di merchandising, si concludono contratti di cessione del marchio in licensing per determinati mercati oltre confine, nascono strane alleanze tra il Manchester United in Inghilterra e i New York Yankees dall'altra parte dell'Atlantico. Si cerca insomma di monetizzare un valore aggiunto da sempre esistito, ma che la situazione pregressa non obbligava a sfruttare. E adesso nei bar non si parla più soltanto di rigori dubbi o palesi, ma si discute sul contraccolpo dato da una sconfitta al valore di Borsa. Segno di un'opinione pubblica più attenta nei confronti di ciò che prima non faceva notizia, se non quando bisognava gridare allo scandalo per l'acquisto, a Napoli, di un certo Diego Armando Maradona. Una spesa rivelatasi alla fine tra le più felici nella storia del calcio moderno.
L'America insegna
Un altro esempio, i Mondiali di Sud Corea e Giappone da poco conclusi. La Fifa si è accorta di avere sparso il seme del calcio negli Stati Uniti, nel 1994. Fu quasi una scommessa, andare a investire in un terreno dove il soccer non ha mai germogliato, a causa della presenza consolidata di football, basket, baseball, e hockey.
Il sistema sociale statunitense considera lo sport una parte importante dello sviluppo e di tutta la vita dell'uomo. Partendo dai college. Lo sport è una materia da imparare a scuola, e le università si contendono gli sportivi più degli elementi maggiormente meritevoli sul piano dello studio. Fino a qualche anno fa, la scelta dei ragazzini cadeva sul calcio solo quando non riuscivano a iscriversi ad altre discipline: un semplice ripiego per i meno forti. Con il tempo però le cose sono cambiate. Adesso in America sono più i ragazzi che scelgono come materia sportiva il calcio di quelli che si iscrivono al baseball. Grazie a USA '94. Figuriamoci allora gli sforzi della Fifa per organizzare al meglio la colonizzazione, quest'anno, dei Paesi orientali. Ne sappiamo bene qualcosa. Il risultato adesso è che tutti in Italia sanno chi è Sepp Blatter, sanno cos'è la Fifa, sanno che Leo Kirch, prima di fallire con Kirch Media, ha comprato dalla Fifa, dopo il fallimento della Isl, i diritti dei Mondiali 2002 e 2006 per 1,8 miliardi di dollari, con un ritorno finora di 2,3 miliardi di euro, facendo lievitare i costi per le tv dieci volte di più rispetto a Francia '98.
L'economia francese, nel 1998, era cresciuta del 3,3%, il tasso più alto di tutta la decade degli anni Novanta. L'indice CAC 40 era aumentato del 39%, sorpassando il mercato globale del 22%. Si disse che anche quello fu un effetto dei Mondiali.
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